Come è disciplinato il “cambio sesso” in Italia?
Il nostro ordinamento disciplina il “cambiamento di sesso” mediante una legge ad hoc, la legge n. 164/1982.
E’ infatti, riconosciuta alla persona transessuale la possibilità di cambiare l’identità sessuale sia nel fisico sia di fronte alla legge, cambiando il proprio sesso all’anagrafe ed, in seguito, sulla carta d’identità.
La “ri-attribuzione chirurgica di sesso” viene autorizzata con apposita sentenza da parte del Tribunale di residenza del richiedente, ciò, tenuto conto che essa comporta l’asportazione degli organi della riproduzione che, in assenza di patologie organiche che la giustifichino, è normalmente vietata nell’ordinamento giuridico italiano giacché lesiva dell’integrità della persona. Pertanto, chi intende modificare la propria sessualità deve seguire un percorso assai complesso che si articola in diverse fasi.
La prima fase consiste nella presentazione di una istanza, mediante un legale di fiducia, al Tribunale di residenza. Nel procedimento all’uopo instauratosi, il Giudice può disporre una consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato nominando un consulente tecnico d’ufficio onde accertare le condizioni fisiologiche del ricorrente. Il richiedente può, a sua volta, scegliere di farsi assistere da un proprio consulente tecnico di parte.
In questa fase, anche se non specificato dalla legge, l’iter di natura psicologica costituisce un aspetto assolutamente fondamentale.
Una volta ottenuta la sentenza del Tribunale, è possibile, rivolgersi alle strutture ospedaliere al fine di richiedere gli interventi chirurgici ritenuti necessari dall’interessato.
Esaurita tale fase, cosiddetta di “ri-attribuzione chirurgica di sesso“, si accede alla seconda fase del procedimento, di regola, molto più veloce, che consiste nella rettificazione dello stato anagrafico, cioè nella modifica dei dati personali, ovvero, nome e sesso attribuito alla nascita, nei registri dell’anagrafe a cui si è iscritti.
Anche in questo secondo caso, è necessario preventivamente presentare apposito ricorso presso il Tribunale di residenza onde ottenere la rettifica anagrafica, allegando le cartelle cliniche della struttura sanitaria ove è stata effettuata la riconversione.
La sentenza di rettifica anagrafica consente di chiedere all’ufficiale di stato civile del comune in cui è stato compilato l’atto di nascita di provvedere alla rettificazione nel relativo registro.
La legge stabilisce che, a seguito della rettifica di sesso, nessuna traccia debba permanere circa il sesso e il nome originari del richiedente e, ciò, a salvaguardia della privacy e del futuro inserimento dello stesso nella società.
A questo punto, il soggetto che ha provveduto alla rettifica del sesso, acquisisce a tutti gli effetti un nuovo status e, quindi, anche la possibilità di contrarre matrimonio e sposarsi nuovamente.
Ma cosa accade nel caso in cui due coniugi, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, non intendano interrompere la loro vita di coppia e, quindi, non intendono porre fine al loro matrimonio?
Sul punto, si è dapprima,pronunciata la Corte Costituzionale con sentenza n. 170 del 10 giugno 2014, ritenendo ammissibile il ricorso presentato da una coppia di coniugi che intendeva ottenere la cancellazione della annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del matrimonio», che l’ufficiale di stato civile aveva apposta in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione, su ordine del Tribunale, della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito.
Successivamente, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8097/2015, ha dichiarato la illegittimità dell’annotazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio apposta a margine dell’atto di matrimonio dei ricorrenti nel caso dalla stessa esaminato.
In sostanza, la Corte ha dichiarato illegittimo un divorzio formalizzatosi anche in assenza del consenso delle parti, ed ha riconoscuto il diritto dei coniugi a conservare il vincolo matrimoniale legittimamente contratto in origine finchè il legislatore, con apposito intervento normativo, non consentirà loro di mantenere in vita il rapporto di coppia giuridicamente intercorrente, con altra forma di convivenza registrata idonea a tutelare, col maggior grado di protezione possibile, i reciproci diritti ed obblighi.
Sulla controversa questione di recente, è intervenuta la famosa legge sulle Unioni Civili, c.d. legge Cirinnà, n. 76/2016, prevedendo, al comma 27 dell’art. 1, che “alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”.